Aver cura dell’umano è possibile anche creando delle condizioni di riflessione e sperimentazione sul groviglio emotivo che forma le nostra intelligenze. Che rapporto abbiamo con il denaro e con il potere? (non quanto ne abbiamo) e con la morte? La tragica vicenda del dott. Faust, il suo essere sedotto solo dall’utilità della sua scienza, l’aver ridotto i suoi consiglieri a meri co-firmatari di una decisione pregiudiziale circa la materialità del mondo, l’aver pianto come un bambino quando si è reso conto che il tempo a sua disposizione era finito, quanto ha da dire ancora a noi?
Un percorso di ricerca iniziato a marzo 2016 presso l’ospedale San Giovanni Vecchio, aperto a tutti i cittadini (dai 16 anni in su) che vogliano dedicare tempo e spazio all’arte della cura dell’umano. E che, per questo, diano l’anima. Ogni incontro è un inizio e non ci sono “prerequisiti” nè obiettivi da raggiungere. Ragioniamo e sperimentiamo la seduzione dell’utile concedendoci un tempo e uno spazio di azione “inutile”, non piegato alle leggi e ai meccanismi dell’ordinario. Non verrà rilasciato attestato ma forse riusciremo a stare insieme da esseri umani, animati solo dal piacere di metterci la faccia. Attraverseremo due processi artistici in particolare: il canto e il teatro e ospiteremo artisti e studiosi interessati.
Con Gianluca Gobbi abbiamo provato a raccontare questo processo ancora in divenire, potete scaricare i podcast che trovate sul sito di radioflash.
Intenti
Possiamo concederci un laboratorio così extravagante e dargli credito sapendo di vivere in un tempo scandito in modo ferreo da prerequisiti, competenze e terapie di ogni tipo?
Siamo disposti a “prendere coraggio” per servirci audacemente della nostra intelligenza e per incuriosirci inutilmente a qualcosa, non asservendola a nessuno scopo ordinario?
Possiamo ancora, in questo tempo triste e sedato dall’utile, studiare perchè ci piace, lavorare artisticamente per il gusto di lasciare traccia del nostro modo di stare al mondo, tessere relazioni con affini … Possiamo essere davvero liberi e sperimentare il nostro vivere non come lotta per la sopravvivenza ma come “danza della realtà”?
Siamo tutti concordi nel ritenere che, nella formazione della persona, parole e teorie non contano più di tanto: bisogna addestrarsi alla scuola della vita. E la vita è soprattutto esperienza, incontro-scontro con una realtà che è molto lontana da ciò che desideriamo, sulla quale fantastichiamo, rispetto alla quale abbiamo delle pretese talvolta impossibili. L’esperienza è la sosta cui siamo chiamati per provare a dare un senso alle nostre azioni quotidiane, è lo stare in atteggiamento più passivo che attivo. L’esperire ha infatti in sé questo carattere sofferto, pesante, come di chi, dovendo portare un peso sulle spalle, è necessariamente portato a piantare i piedi a terra, ad andare giù e a modificare l’andatura, eppure ciò che continuamente vediamo è un modo compulsivo di fare esperienza, qualcosa di tanto intenso, come un lampo, quanto superficiale, una luce che non dura che un attimo e che non lascia niente dietro di sé.
Eppure non era così e non è stato così per secoli. L’esperienza, nel suo senso più alto e salvifico, era legata alla capacità di accostarsi alle cose una per una, e di maturare un’intimità con esse capace di schiuderne i sensi più nascosti. Spesso era un lavoro di pazienza, e perfino di studio teorico, non a caso, studére, dal latino, vuol dire proprio stare lì, fermarsi. Ma come ci si può fermare in un tempo che è denaro? Bisogna accumulare titoli, incontrare gente, muoversi, girare, andare, partire, lasciare, navigare, fare … come i barbari che invadono e prendono ciò che serve e il resto lasciarlo lì come cosa morta. Inutile chiedersi il senso di questo muoversi, la meta è il movimento stesso, un movimento che, irrequieto, non cerca l’esperienza ma è già l’esperienza. Ma in questo andare frenetico facciamo davvero esperienza o ripetiamo meccanicamente parole e gesti di un copione mandato a memoria molti anni fa?
Walter Benjamin scriveva: “la noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza”. Per annoiarsi e per predisporsi al nuovo bisogna fermarsi non solo con il corpo ma anche con la mente. Spesso non avere obiettivi da raggiungere (come questo laboratorio) è utile perchè inutile. Consente di trovare un tempo pieno (i greci lo chiamavano kairòs) per imparare a stare sulle cose, a coltivarle, a creare non in nome della spettacolarità (del far vedere ad altri che sappiamo fare) ma per quella potenza creativa, per quell’essere inizio che ciascuno è.
E per poter essere inizio di qualcosa bisogna intanto mettere tra parentesi ciò che già si sa per provare a dire “non so ma provo e poi si vedrà”. Questa è la strada su cui io stessa sono, una strada poco battuta, ma che c’è e che vorrei mostrarvi in scienza e “incoscienza”.