Negli anni mi sono accorta che non basta limitarsi a chiarire i concetti sulla carta, è importante, ma non è tutto. L’etica non è solo frutto di ragionamenti sillogistici, utilitaristici o procedurali, anche se molte correnti di pensiero la spacciano per questo. L’etica tocca la carne, la ferisce perché ci sposta dall’ordinario che conosciamo, mette in circolo quelle emozioni da cui cerchiamo di ripararci per non farci coinvolgere troppo. L’etica non è solo teoria ma è anche una pratica che vuole essere buona. E’ questo il motivo per cui ho scelto di portarla fuori dallo spazio prezioso della riflessione accademica di cui mi sono nutrita per anni. Non per abbassarla secondo le facili divulgazioni dei “manuali fai da te” ma per infondere nella povertà e nella tristezza emotiva dei tempi che viviamo l’altezza, la nobiltà e la complessità di questioni che – per coinvolgere davvero tutti- non possono essere affrontate con gli strumenti del problem solving o della lezione frontale, né possono essere licenziate come cose altre dalla vita. Devono farsi arte di essere. E per questo è necessario che il corpo lavori producendo un’energia rinnovata negli effetti. Senza questa mediazione non riusciamo ad essere altro rispetto a ciò che siamo.
Come sollevarci al piano alto da cui l’etica ci provoca con il suo dover-essere, come andare oltre noi stessi per vederci come altro da ciò che immaginiamo essere, come accogliere quegli stranieri morali che non sono mere giustapposizioni di corpi, ma altri punti di vista sul mondo? Come farci alterare e come rispondere senza ridire idiosincraticamente ciò che già sappiamo o rifare meccanicamente quei gesti che fissano le nostre identità e le rendono rigide davanti alla straordinarietà dell’incontro con ciò è davvero reale e quindi fuori dalle nostre menti?
Questo mi sta a cuore, il come, questo modo del rispondere, non il cosa – che è sempre predeterminato dai nostri geni e dal mondo-ambiente che abbiamo ereditato. Ritengo che la libertà, da più parti invocata, ci sia concessa solo nella forma del come essendo il come un gesto davvero libero perché frutto di un movimento intenzionale del corpo innescato dalla risposta che siamo chiamati a dare nel qui e ora di ciò che ci è dato vivere. Ogni agire è sempre un reagire a ciò che ci precede, perché si passi dalla reazione alla risposta consapevole è necessario esercitare il corpo a sciogliere i vincoli e ad affrontare la paura del ridicolo per aiutare la mente a guardare sempre oltre. Su questo lavoro – e questo sono – sperimentando ogni giorno che etica ed estetica possono essere tutt’uno se impariamo a pensare e ad agire nello spazio metaforico del come se prima di trovarci nell’urgenza brutale di scelte che sempre comportano decisioni e quindi tagli della complessità. Più tempo-spazio inutile (non asservito) ci diamo, più ci sottraiamo alla brutalità e alla disumanità; più cerchiamo risposte efficaci più restiamo inseriti in quel meccanismo sociale e culturale che, privando l’etica di ogni dignità, ne fa un mero atto d’ufficio, quasi un dispositivo di sicurezza in cui ogni potenza di relazione e ogni apertura alla complessità resta soffocata sul nascere.